C'è qualche taglio, perché il brano è già abbastanza lungo, spero che a qualcuno interessi...
LA FERROVIA SOFFOCA LA CITTÀ
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L’organizzazione ferroviaria milanese del primo periodo andò rapidamente sviluppandosi. Alla Stazione Centrale ed allo Scalo merci di Porta Garibaldi, sorti per primi, vennero collegati dopo pochi anni altri quattro scali e stazioni: lo Scalo merci di via Farini, lo Scalo di smistamento del Sempione, la Stazione Ticinese, a cui faceva capo la ferrovia per Vigevano, Mortasa ed Alessandria e lo Scalo merci di Porta Romana. Col 1884 la città risultava circondata su tutto il perimetro dalle opere ferroviarie a piano di campagna o in rilevato.
Ma nel 1898 l’insufficienza di quegli impianti si palesava così grave che il Ministero dei Lavori Pubblici promosse degli studi per una riforma totale, studi che portarono alla progettazione degli impianti ferroviari che possediamo oggigiorno. La Commissione ministeriale fondò il suo lavoro sui dati di previsione del venticinquennio che si sarebbe chiuso nel 1925.
Dato l’incremento annuale medio di 65.000 viaggiatori constatato in passato, veniva presunto un movimento di 4.430.000 viaggiatori nel ’25; se ne ebbero invece più di 5.000.000 già nel 1903. Dato l’incremento annuale di 30.000 tonnellate nel movimento delle merci a piccola velocità, si prevedeva un movimento di 1.500.000 tonnellate nel ’25; invece se ne ebbero quasi 2.500.000 già nel ’24. La previsione risultò dunque profondamente erronea ed erronea fu anche, dal punto di vista della geografia urbana, l’impostazione tecnica generale della nuova rete ferroviaria. Se nel primo ciclo dell’età ferroviaria furono svalutati i traffici stradali e fu deformata la trama dei loro percorsi nella zona suburbana, in questo secondo ciclo quegli errori si ripetono e si aggravano: la nuova stazione a schema di testa anziché penetrare più profondamente nella città, sorge 800 metri in fuori della stazione precedente; la rete di cintura, benché molto più esterna, diviene più complessa ed ingombrante; lo schema generale rimane incompiuto perché la stazione principale non riesce ad accogliere la linea elettrica Varese-Milano ed a compiere quella funzione d’accentramento di tutte le linee delle Ferrovie dello Stato, che era assolta dalla stazione antica. Si è pervenuti ad una organizzazione inadeguata per calibro e per tracciato, fondata sulla concezione della città come un corpo tondeggiante e circoscritto, concezione che è per se stessa irrazionale e che determina uno schema d’assieme cui manca il pregio della flessibilità.
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Alla gigantesca stazione a schema di testa i treni accedono su due livelli: in alto i treni viaggiatori, che trovano sotto a cinque tettoie parallele di diversa elevazione 22 binari; in basso i servizi delle merci a grande velocità accelerata e quelli per la posta. Questa stazione è davvero enorme: ha una facciata lunga 207 metri e s’innalza sino a 50 metri dal suolo. La sua struttura edilizia è bruttissima: costruita tutta in pietra d’Aurisina, essa non palesa neppure i pregi della materia, che è trattata con quello spirito ornamentale che fiorì nel primo Novecento nelle fabbriche a buon mercato, appesantite d’ornamenti fatti a stampo in « cemento decorativo ». L’opera dell’architetto Ulisse Stacchini è una riprova che la materia in se stessa non conta nulla, che essa può addirittura assumere false apparenze e che ciò che conta è lo spirito ed il mestiere di chi inventa e compone la fabbrica.
Il modo in cui la stazione monumentale è situata rispetto allo schema topografico-urbano rileva un’anomalia molto palese. L’asse mediano dell’edificio è in falso rispetto all’asse del piazzale Duca d’Aosta e della via Vittor Pisani; questa sfalsatura, concorrendo certe obliquità che ingigantiscono l’effetto, offende l’osservatore, specie chi esce di città, quando il fabbricone fa da sfondo alla prospettiva stradale, in quanto si sommano con cruda evidenza parecchi errori topici.
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Il gioco fatale di quei due errori divenne palese nel ’31, quando fu demolita la vecchia stazione che faceva da schermo. Nulla meglio di questo episodio dimostra che nel secolo scorso si era perduta dagli edili ogni nozione delle norme geometriche fondamentali, di quelle che furono le « sacre norme » della centuriazione romana. Esso dimostra inoltre che in Milano l’elaborazione del piano urbano avvenne sistematicamente per frammenti e che la civiltà che commise quegli errori mancava dell’attitudine galileiana di condurre i singoli problemi alla sintesi unitaria: riprova palmare della irrazionalità moderna, errore che condanna inappellabilmente tutta la disciplina scolastica di un secolo. Riconducendoci all’esame degli impianti ferroviari vediamo lungo la maglia esterna le stazioni di Lambrate (sussidiaria) e di Porta Romana (scalo merci). Dalla cintura si staccano e penetrano radicalmente verso l’interno la stazione di Porta Vittoria (scalo derrate alimentari e bestiame da macello) e la stazione di via Farini (scalo delle merci a piccola velocità). All’innesto della cintura con le linee di corsa s’incontrano le stazioni di Milano Certosa (sussidiaria), di Greco (scalo merci e deposito locomotive), di Milano Smistamento, di Rogoredo (sussidiaria) e di San Cristoforo (sussidiaria).
Questa immensa opera nuova, che nonostante la mole e la complessità non riesce a compiere tutte le funzioni a cui sopperiva la stazione precedente, comportò una spesa di circa ottanta milioni nel periodo antecedente alla prima guerra mondiale e di circa un miliardo e trecento milioni nel periodo ad essa successivo. Si ponga mente che per la somma minore si trattava di lire auree e che per quella maggiore e successiva si trattava di lire svalutate del 50% circa. Anche tenendo conto di questo fattore la riforma ferroviaria rimane la più grande e costosa opera unitaria che mai sia stata intrapresa in Milano da che esiste la città ed è davvero peccato che essa valga tanto poco in linea pratica. Per ragioni intrinseche che dimostreremo in altro luogo non sussiste la possibilità di completare e perfezionare quell’opera col tempo, ché il tempo è anzi il gran nemico di tutte le strutture di indole tecnica, che costantemente diminuiscono, man mano che la tecnica progredisce, nel grado di merito e d’utilità.
La concezione della riforma ferroviaria milanese fu influenzata nel suo complesso da due correnti di metodo e nelle opere stesse si palesa la contaminatio di due tendenze: la vecchia moda francese di circuire la città con l’anello ferroviario anziché penetrarla e la moda tedesca, affermatasi sulla fine del secolo scorso con grandiosi esempi, delle enormi stazioni a schema di testa. Era la stazione di Lipsia che appariva in quel torno alla mente dei tecnici ferroviari italiani come il prototipo da imitare. A quella stazione mettono capo 26 binari paralleli, ai quali confluiscono due linee ferroviarie distinte: quella prussiana e quella sassone, ch’erano un tempo gestite come organismi indipendenti. L’immissione delle due reti in un solo parco binari non basta a cancellare la dualità dell’impianto, che si rivela nello schema stesso dell’edificio geminato: due atri biglietti, due serie di sale d’aspetto, due rampe d’accesso al piano dei treni, due rampe d’uscita: nel complesso una peculiare e strana simmetria bilaterale che in certo modo annulla pel pubblico il beneficio della « stazione centrale ».
La stazione di Milano, che gareggia con quella di Lipsia in dimensioni, ne ha derivato molte inutili simmetrie che le sono proprie: anche qui si hanno quattro scaloni frontali e due alle testate, tutti simmetrici tra loro; l’atrio coperto per le carrozze diviso in due porzioni e manca un’organizzazione schematica semplice e palese che dica al pubblico: « Di qua si entra, di là si esce ».
Ma l’influenza tedesca s’arrestò allo schema della stazione principale e non influì affatto sul suo collocamento rispetto al corpo urbano. Mentre lo scopo precipuo delle stazioni di testa è quello di facilitare la penetrazione ferroviaria fin nell’intimo delle città, in Milano si verificò il fatto opposto, perché la stazione, come dicemmo, sorse molto più all’esterno di quella vecchia. È facile comprendere che la stazione di testa comporta maggiori oneri d’esercizio che non quella si transito, perché occorre spostare i treni che vi « si formano » e che vi « muoiono » dai luoghi di deposito sino alla stazione e reciprocamente e perché i treni in transito devono fare lunghe deviazioni per « infilarsi » nella stazione terminale e devono invertire il senso della marcia per sortirne, mentre accedono e ripartono agevolmente nelle stazioni aperte su due testate. Ma evidentemente la commissione di studio non aveva istituito il computo preventivo di questi costi d’esercizio; quel che determinò la scelta dello schema di testa fu da un canto la moda, dall’altro un complesso gioco d’interessi nascosti. A quasi mezzo secolo di distanza, dopo il fallimento totale a cui si ridusse coi suoi metodi di governo e la sua etica la classe sociale che dirigeva il paese sub specie liberale, è lecito dire perché la nuova stazione di Milano sia sorta al nord della città e perché la nuova cintura ferroviaria sia stata voluta in rilevato anziché in trincea. La scelta del luogo compreso tra la radiale Galileo Galilei e Ponte Seveso al ponente e la radiale Settembrini al levante fu influenzata dalla volontà di speculatori fondiari che possedevano da quelle parti vaste aree suscettibili di urbanizzazione e grandi stabilimenti industriali che sarebbe convenuto rimuovere e trasferire altrove. Il fatto che l’urbanizzazione stessa sia poi andata a rilento, tanto che ancora oggigiorno il quartiere circostante alla stazione è pieno di lacune e di vecchie fabbriche, derivò in parte da imperfezioni del piano regolatore cittadino, in parte da un errore intrinseco e fondamentale: la stazione avulsa dalla città non riesce a determinare da sola un nuovo centro urbano pienamente vitale.
L’adozione del rilevato ferroviario in luogo della trincea può attribuirsi ad un misoneismo tecnico, posto che così facendo si teneva fede allo schema preesistente; anche può darsi che il proposito di creare la stazione con i treni correnti su due livelli sovrapposti abbia costretto a seguire questo indirizzo, in quanto abbassando al fondo di una trincea il piano dei binari sottostanti si sarebbero avuti al pano di campagna quelli sovrastanti e si sarebbero tagliate troppe maglie della rete stradale col manufatto della stazione. Ma può anche darsi che sulle decisioni abbia influito il fatto che lungo i fianchi della stazione inferiore attuale si sviluppano dei grandiosi magazzini di deposito delle merci, che vennero costruiti e gestiti per lungo tempo da un solo appaltatore; la proficua attività costruttiva e speculativa ad un tempo non sarebbe stata possibile senza la sopraelevazione del « piano del ferro ».
Taluno potrebbe chiedere come mai in un regime politico liberale degli interessi privati ed inconfessabili si siano potuti fissare ed inserire nella genesi di un’opera pubblica di portata nazionale, senza che delle critiche sorgessero a contrastarli. Di fronte a questa domanda molto sensata si può osservare che l’estensione nel tempo di quegli studi e la loro realizzazione (si rammenti che corsero otto anni tra l’inizio degli studi e la posa della prima pietra e venticinque anni tra la prima pietra e l’inaugurazione della stazione) basta da sola a smussare la più diligente critica e la più fondata reazione, mentre gli interessi favorevoli a determinate soluzioni non demordono mai né si stancano e finiscono di regola col prevalere. Di critiche però se ne ebbero, talune appoggiate anche da contro-progetti, altre rappresentanti l’opinione di tecnici competenti. Quel che invece mancò anche in questo caso fu un movimento critico facente capo alle scuole […].
Un progetto era stato elaborato dagli ingegneri Candiani e Castiglioni, che prevedeva due stazioni di testa, una al levante e l’altra al ponente della città ed intendeva collegarle mediante una ferrovia metropolitana corrente dalla Porta Vittoria alla Porta Magenta passando per la piazza del Duomo. Urbanisticamente si trattava della creazione d’un grande asse diametrale di nuovo tracciato e di nuova indole, non coonestato però dalla coincidenza con la giusta direttrice geografica della città, che non è quella da E a O, bensì quella da SE a NO. Mancava inoltre in quel progetto l’unicità della stazione, che è pur sempre un aspetto positivo del servizio ferroviario e che la Direzione delle Ferrovie dello Stato, a cui spettava infine la decisione, presumeva di ottenere col suo mastodontico schema. Il progetto Candiani e Castiglioni morì in fasce.
Contrario alla stazione gigantesca e monumentale era il pensiero del Direttore generale delle ferrovie d’allora, l’ingegnere Riccardo Bianchi, al quale la storia, che tanto spesso è intessuta di distorsioni del vero, attribuisce la paternità di tutta quanta la riforma ferroviaria milanese. Il Bianchi affermava che le stazioni devono essere di lieve costo d’impianto e diceva addirittura: « È meglio che siano brutte », per facilitare ogni loro mutazione o sostituzione non appena lo imponga il progresso ferroviario. Evidentemente la moda da un canto, la congiura degli interessi nascosti dall’altro, seppero prevalere sul pensiero del più autorevole competente! Dalla « flessibilità » del grande impianto, che era aspirazione dell’uomo che riordinò le ferrovie italiane, si passò nella pratica ad uno schema di rigidità assoluta, alla realizzazione della mole tetragona e sgraziata che il popolo in sua saggezza chiama « el baraccon ». I lavori della riforma ferroviaria, interrotti dalla prima guerra mondiale, vennero ripresi verso il 1924 su viva istanza degli amministratori del Comune. Il sindaco d’allora, senatore Luigi Mangiagalli, menò gran vanto per avere ottenuta quella ripresa; ma vero suo merito sarebbe stato quello di costringere i poteri centrali ad una revisione di tutto il programma di riordino, vecchio allora di più che vent’anni e palesemente superato nella realtà sotto molti aspetti.
Un tentativo di riesame del programma fu fatto da un gruppo di tecnici nel 1925, che osarono promuovere delle discussioni su quel tema in seno al Collegio degli ingegneri ed architetti. Il merito dell’iniziativa fu dell’ingegnere Gaetano Mannino, estensore insieme ad altri d’un controprogetto pubblicato negli Atti del Collegio degli ingegneri ed architetti di Milano […]. In quell’occasione venne creato un Comitato col mandato di richiamare l’attenzione del pubblico e delle autorità sul progetto ufficiale che « condurrebbe con una spesa enorme al miserevole risultato di dare a Milano una stazione ferroviaria di potenzialità inferiore a quella esistente e richiederebbe una spesa d’esercizio assai superiore ».
Queste affermazioni tecniche erano seriamente documentate e sotto l’aspetto urbanistico era detto: « Le stazioni di testa hanno ragione di esistenza in ispecie pel servizio locale ed addentrandole più che sia possibile verso il centro cittadino. La costruzione di testa a Milano potrebbe essere giustificata qualora il servizio fosse ripartito in più stazioni dello stesso tipo, ubicate possibilmente all’altezza della Ferrovia Nord o se, distanziandole tra loro e dal centro, esse fossero opportunamente collegate da metropolitane: esempio Parigi. Per Milano tale tipo è in disaccordo con l’incremento rapidissimo della sua popolazione, del suo movimento industriale e con lo sviluppo dei suoi quartieri, che si allontanano sempre più dal centro ». Qui si voleva dire che in una città che si espande fortemente in ogni direzione la maggior parte dei suoi quartieri d’abitazione sarà servita sempre peggio da una stazione unica situata in luogo eccentrico.
La proposta formulata da quei critici consisteva in una radicale riforma della vecchia Stazione Centrale (che per cinque anni doveva restare ancora in esercizio), alla quale essi volevano mantenere il carattere di transito, ampliandola e potenziandola grandemente. Sembra oggi a noi che quella iniziativa peccasse d’irrealtà, in quanto non tendeva a sfruttare nemmeno parzialmente le nuove grandi opere d’approccio già molto avanzate e lasciava sussistere degli elementi della cintura vecchia in rilevato, che costituivano davvero un grande nocumento alla vita urbana. […] Nel fatto l’iniziativa lodevolissima del riesame, alla quale avevano aderito parecchi tecnici delle Ferrovie e del Genio Civile, venne troncata ex autoritate e qualcuno dei funzionari che più s’erano compromessi venne trasferito in residenze non desiderabili. Dirigeva le ferrovie il « quadrunviro » Costanzo Ciano.
Che le critiche alla potenzialità della nuova stazione principale fossero giuste lo dimostrarono i fatti; essa non riuscì ad accogliere tutte le linee delle Ferrovie dello Stato, come già dicemmo, e la linea elettrica per Varese permane tuttora nella sua vecchia sede, determinando un costante spreco di spese d’esercizio per il sovraccosto di quella stazione autonoma, relitto dei vecchi impianti, e recando un danno patrimoniale allo Stato pel mancato realizzo delle aree tuttora impegnate dalla ferrovia. Conviene inoltre ripetere la considerazione sui danni diretti ed indiretti che il permanere della linea per Varese in quel luogo e con l’andamento in rilevato reca alla città, ostacolandone l’espansione e tormentandone i traffici stradali in un ampio settore. La situazione di fatto è quanto mai disordinata e sconnessa. La preoccupazione di porvi riparo, di concludere finalmente una riforma ingente studiata quasi mezzo secolo fa, condotta per quasi otto lustri, che vide svolgersi due guerre europee e non riuscì mai a perfezionarsi, è sempre presente. Né il tempo attenua le difficoltà; non si tratta di uno di quei problemi di cui si dice che « maturano da sé », bensì di quelli che più il tempo passa, più ampiamente vanno riconsiderati e più radicalmente risolti.
Per il riordino ferroviario che tuttora occorre intraprendere furono prospettate in anni recenti varie soluzioni:
1. Un progetto molto ingegnoso mirava a riunire in una sola stazione la testata delle Ferrovie Nord e quella della linea elettrica Varese-Stato. Questo progetto, studiato dall’ingegnere Giovanni Bassetti, era caldeggiato dalla Direzione delle Ferrovie Nord-Milano.
2. Un progetto di una grande stazione autonoma per la linea Varese-Stato da erigersi al di là del Cimitero Monumentale collegata alla città dalla via Mac Mahon venne elaborato dall’Ufficio Tecnico Comunale e figura in un piano regolatore generale delineato dalla burocrazia municipale.
3. Un vasto programma venne da tempo studiato in linea di massima dalla Direzione delle Ferrovie dello Stato, con un nuovo grande impianto per le derrate alimentari capace di rimpiazzare lo Scalo di Porta Vittoria già insufficiente, con la trasformazione di quest’ultimo in stazione viaggiatori per alcune linee locali (Bergamo, Lecco, Brescia, Piacenza, Voghera) e con la costruzione di grandissimi impianti connessi al porto fluviale progettato a suo tempo a SE della città.
4. La Società delle Ferrovie Nord-Milano si propone un cospicuo ingrandimento della sua stazione affacciata al piazzale Cadorna e fronteggiante il Parco, ingrandimento giustificato dal cospicuo e continuo sviluppo dei servizi di questa vitalissima rete ferroviaria regionale.
La mole dei propositi e progetti non manca d’imponenza, ma manca tuttora un sufficiente grado di chiarezza ed un’organica correlazione tra i vari intenti.